Leonardo Bruno: Architetto Sonoro, Artigiano Digitale, Re-inventore di Esperienze

Sono nato nel 1963, tra le montagne delle Madonie, dove l’aria porta con sé il profumo del fieno e delle domeniche in processione, e il silenzio ha la forma delle pietre. Crescere tra Petralia Sottana e Petralia Soprana ha significato imparare presto che ogni cosa ha un’anima: le case, i venti, i vicoli che si aprono all’improvviso sulla valle, come finestre su un tempo che non vuole passare.

Mia nonna materna, Serafina, era piccola e curva, madre di nove figli. Viveva con la dignità discreta di chi ha fatto della fatica un’arte quotidiana. Le estati erano lunghe e vibravano di sole e di uva pendolante dalle travi. I miei zii distribuivano ortaggi ai vecchi del quartiere, come in un rito di restituzione. E intorno, la vita era un intreccio di semplicità e incanto: i giochi per strada, le feste patronali, i racconti che si infilavano tra i rami degli alberi come uccelli invisibili.

Mio padre, Peppino, era un uomo buono, amato da molti. Reduce di guerra, prigioniero dei nazisti, sopravvissuto agli orrori che rubano gli anni migliori. Parlava poco, ma quando lo faceva, ogni parola era come una pietra messa nel posto giusto. La sua forza non era ostentata, era la quieta fermezza dei giusti. Aveva occhi che portavano dentro la fatica e la gentilezza, e mani che sapevano costruire silenzi.

Mia madre, Rosa, era una lavoratrice instancabile. Casalinga perfetta,  maestra della pazienza. Intorno a lei ruotava la casa, con i suoi odori semplici, i ferri da stiro sempre accesi, e il suo modo tutto materno di ascoltare in silenzio anche le musiche più dissonanti dei miei studi. Quando la sera mi sentiva suonare Messiaen o Bartók, non diceva mai “basta”: mi offriva qualche soldo, un sorriso disarmato, e m’invitava a uscire a respirare un po’ d’aria buona.

Palermo, con le sue contraddizioni, mi ha accolto e respinto insieme. Non sono mai riuscito davvero a sentirmici a casa. I silenzi delle montagne erano più familiari del rumore cittadino. Al Conservatorio sono passato di sfuggita, con incostanza e curiosità, ma ciò che davvero mi ha formato è stato il desiderio di comprendere, oltre le regole, i misteri del suono. E intanto la vita scorreva tra gli affetti più intimi: Sergio, mio fratello, zufolista virtuoso; Graziella, mia sorella, compagna di giochi che si è allontanata presto per via degli studi. E poi i bar di Soprana, le partite a carte con gli anziani, la banda musicale, la sezione del PCI: tutto era scuola, tutto era radice.

Matilde, mia moglie, è l’incontro che ha dato forma alla mia maturità. Insegnante, donna piena di luce, forza vitale contagiosa. Accanto a lei ho costruito il mio presente. I nostri figli, Giuseppe — batterista talentuoso — e Gabriele, ancora in cammino, sono le note continue di un pentagramma che non smette mai di evolversi.

La mia traiettoria artistica affonda le radici in un dualismo fecondo: da un lato la disciplina musicale assorbita negli anni giovanili tra studi formali e personali, dall’altro un’esplorazione autodidatta, rigorosa e affamata, delle possibilità offerte dalla Computer Music e dal Sound Design. Ho sempre sentito il bisogno di interrogare i linguaggi, di attraversarli, persino di “hackerarli”, per restituirli alla vita sotto nuove forme.

Da questo impulso è nato Alta Quota Musica, non solo studio di registrazione, ma vero laboratorio di sperimentazione sonora. Uno spazio in cui le tecnologie più avanzate incontrano la sensibilità artigianale del suono, luogo di ospitalità per progetti, idee e visioni.

Con l’etichetta Suoni della Terra, ho iniziato un lavoro profondo sulla riscoperta dell’etno-musica madonita, non come esercizio filologico, ma come processo di “ingegneria culturale”: recuperare le strutture arcaiche, armoniche e ritmiche, e reinventarle in una nuova veste contemporanea.

La mia attività si è estesa nel tempo a molteplici ambiti: soundtracks per audiovisivi e teatro, regia del suono per installazioni e performance, direzione musicale per eventi complessi. Nel 2003 ho diretto l’orchestra in diretta televisiva durante il Festival di Napoli per la FIM, ma anche in contesti più raccolti e affettuosi, come quando ho avuto l’onore di dirigere un’orchestra da camera presso il Teatro Santa Cecilia di Palermo, in occasione di un concerto della mia cara amica Aida Satta Flores. Momenti in cui la musica si fa abbraccio, e la direzione d’orchestra un gesto di condivisione più che di comando.

Uno dei progetti che più mi rappresenta è il Presepe d’InCanto, installazione immersiva che unisce video mapping, scultura digitale, luce e paesaggio sonoro. È un’opera in cui il silenzio non è assenza, ma materia da scolpire. Giunta alla quindicesima edizione, rappresenta la mia sintesi più compiuta tra arte, spiritualità e tecnologia.

Ho avuto il privilegio di collaborare con artisti come Vincenzo Mancuso, chitarrista e produttore raffinato, con cui ho condiviso stagioni intense di lavoro. E con Don Calogero La Placa, intellettuale e uomo di fede, che mi ha insegnato come anche la teologia può suonare.

Negli ultimi anni, la mia ricerca si è estesa al visuale. Il video mapping, la digital art, la progettazione scenografica sono diventati strumenti naturali per costruire esperienze immersive in cui suono e luce dialogano con lo spazio. Architetture effimere, danze luminose, silenzi che parlano.

Nel cuore delle Madonie, il Teatro Grifeo di Petralia Sottana è diventato per me un luogo di sperimentazione e rinascita culturale. Insieme al mio amico e collega Santi Cicardo, condividiamo la direzione artistica di questo spazio, trasformandolo in un laboratorio creativo che intreccia tradizione e innovazione. Le stagioni teatrali come Radici e SottoCielo sono nate dal desiderio comune di offrire al territorio momenti di riflessione e bellezza, coinvolgendo artisti di rilievo e la comunità locale. Il nostro lavoro al Grifeo rappresenta un’azione culturale coraggiosa, un invito a riscoprire il teatro come luogo di incontro, stimolo e crescita per l’intera collettività.

Non amo separare l’artista dall’uomo, né l’uomo dal padre, dal marito, dal figlio di un tempo che ancora mi cammina dentro. Sarebbe una finzione: la mia arte non nasce da una stanza separata, ma si mescola alla vita come il vento tra gli ulivi, come il profumo del pane nel silenzio della mattina. Tutto si fonde — le contraddizioni, i pudori, le intuizioni — in un disegno fragile e tenace, un ricamo imperfetto che solo da lontano rivela la sua armonia.

Non c’è confine tra l’azione creativa e il gesto quotidiano: ogni suono che compongo, ogni luce che progetto, porta dentro di sé il battito della montagna, la voce degli avi, la stanchezza e l’amore di chi mi ha cresciuto. È un cammino senza riserve, intrapreso nella bellezza e nel silenzio delle mie radici, tra le pietre antiche delle Petralie, lungo i sentieri dove ho imparato ad ascoltare prima ancora di parlare.

Se c’è un centro nel mio fare artistico, è forse proprio qui: nell’intreccio dei fili, nei nodi invisibili dei merletti — soprattutto sonori — che danno forma a una piccola esistenza fatta di ascolto, di memoria e di visione. Un’opera mai finita, che si scrive ogni giorno con la pazienza di chi sa che la bellezza non sta nel risultato, ma nella cura del gesto.

A chi desidera conoscermi, non offro verità ma compagnia. A chi vuole condividere con me un frammento di strada, dico: la porta è aperta. Le esperienze, quando sono autentiche, non hanno bisogno di biglietti da visita. Sarai ospite gradito, perché ogni incontro — se sincero — è già forma d’arte.